La solitudine offre all'uomo altolocato intellettualmente due vantaggi: il primo d'esser con sé, il secondo di non esser con gli altri."
— Arthur Schopenhauer
Cosa resta della felicità quando si è trascorso gran parte della vita a schivare seccature, a costruirsi una fortezza di abitudini, a rifugiarsi in una calma di letture, silenzi e relazioni selezionate? Il professore settantenne di Gianni Di Gregorio sembra aver raggiunto quella fragile oasi di quiete che molti confondono con la pace: una pensione dignitosa, una compagna discreta, qualche amico, una casa ordinata e protettiva. Ma il mondo, con la sua brutalità, bussa sempre alla porta, e lo fa attraverso la famiglia: la figlia in crisi, due nipoti incontenibili, il caos che irrompe dove regnava la compostezza.
È in questa collisione che il film prende corpo: non come cronaca di un’ennesima commedia familiare, ma come riflessione filosofica sulla condizione dell’uomo, costretto a misurarsi con la più inevitabile delle appartenenze — quella familiare. La famiglia: gabbia e rifugio, dono e condanna, invadenza e consolazione. Nessun luogo più della famiglia sa insieme frantumare l’illusione di libertà e restituire il senso stesso del vivere. “Stavo così bene, la famiglia ti frega” potrebbe essere la sintesi amara di un personaggio che si ritrova a sacrificare la sua ordinata felicità privata per rientrare nel disordine collettivo dell’amore.
Di Gregorio costruisce una narrazione in cui ogni gesto diventa segno: l’arrivo dei nipoti incrina i rituali, interrompe il silenzio, destabilizza l’ordine. Eppure proprio questa rottura spalanca una dimensione nuova: la scoperta che l’amore, pur nella sua componente di dolore e rinuncia, è l’unica esperienza capace di strapparci alla sterilità dell’autoconservazione. L’affetto, che grava come peso insopportabile, si rivela anche possibilità di trascendenza quotidiana: l’eroismo del prendersi cura, il sacrificio che diventa prova di esistenza.
Il film, sotto l’apparente leggerezza narrativa, mette in scena un confronto tra nostalgia e inevitabilità. Nostalgia di una vita silenziosa, autarchica, sottratta alle invasioni degli altri; inevitabilità di legami che si impongono come destino. È anche un discorso sull’irrecuperabilità: non si torna indietro una volta che il mondo entra nella nostra casa, non si cancella il rumore dopo che ha spezzato il silenzio.
L’opera, con la sua consueta ironia gentile, parla però anche di altro: del tradimento e del perdono, del desiderio e della responsabilità, dell’importanza della cultura come sguardo critico sulla vita (che siano i Longobardi evocati con leggerezza o i fantasmi della storia che ci accompagnano). La cultura appare come il contrappeso fragile a cui aggrapparsi quando la realtà personale traballa.
Come ti muovi, sbagli diventa così una parabola sulla condizione umana: sulla solitudine che può essere scelta ma raramente concessione duratura; sull’amore che illude e ferisce ma che continua a imporsi come prospettiva di senso; sul tradimento e sul perdono, sulla responsabilità e il desiderio. Sulla famiglia come paradosso di compagnia e limite, radice e vincolo.
Il concetto di delusione è centrale: quanto gli altri possono deludere la nostra poesia e la nostra visione delle cose e quanto noi possiamo deludere le aspettative altrui.
Una finestra sulle abitudini, la necessità dei rituali e per alcuni dell’ordine e del silenzio. In questa oscillazione tra conforto e oppressione, tra caos e nostalgia, il film trova il suo respiro esistenziale: la conferma che non esiste una vita completamente sottratta agli altri, e che ogni tentativo di salvarsi da essi è, forse, destinato a fallire.
E tuttavia, nella sottile e dolorosa ironia della vita, si percepisce anche un altro nucleo di verità: spesso salvare se stessi, ritirarsi dalle trame altrui e dagli obblighi imposti dal legame, può rivelarsi più produttivo e autentico che essere condannati a vivere intrappolati nel flusso incessante degli altri. La libertà scelta, anche se segnata da isolamento e silenzio, diventa allora l’unico terreno in cui il soggetto può riappropriarsi della propria esistenza, dove la serenità non è concessione, ma conquista fragile e consapevole.
La solitudine è la compagnia di chi sa stare con sé stesso."
— Fabrizio Caramagna