“Un libro deve essere la scure per il mare ghiacciato che è dentro di noi.”
Franz Kafka
À pied d’œuvre, diretto da Valérie Donzelli, non consola né abbellisce: si impone come un interrogativo secco sull’essere attraverso la mutazione del suo protagonista. Un fotografo affermato getta via obiettivi e set, scegliendo carta e inchiostro, il vuoto del foglio al posto della superficie lucidata dell’immagine. Il film, tratto dal libro autobiografico di Franck Courtès, mostra come ogni atto creativo, se autentico, diventa un gesto di resistenza, un taglio netto dentro la gabbia delle abitudini.
La regia, priva di orpelli, accompagna il protagonista in una discesa volontaria nella povertà, uno spazio di mancanza che rivela ciò che resta quando cade la maschera dell’identità costruita. Il ritmo quotidiano, fatto di lavori umili e degradanti, non è semplice perdita di sicurezza economica, ma un rito di spoliazione. Non si tratta di sventura privata: ciò che emerge è il destino comune a chi è risucchiato da un mercato che consuma, che sostituisce corpi e nomi, che cancella dignità. La precarietà non è episodio ma condizione, terreno di alienazione collettiva in cui immaginare futuro diventa impossibile.
Bastien Bouillon incarna questo logoramento con uno sguardo che non cede mai del tutto, oscillando tra ironia e fragilità. Attorno a lui non ci sono salvezze: solo figure che riflettono, con indifferenza o giudizio, le contraddizioni di un sistema che mercifica il tempo e svuota il lavoro di senso. Queste presenze non fanno da contorno: sono il promemoria che la solitudine non è scelta individuale ma conseguenza di rapporti di forza invisibili.
Lo stile del film evita la retorica e si chiude in un’essenzialità spietata. Ogni inquadratura sospesa, ogni silenzio, segna un vuoto che non è solo interiore ma sociale: il vuoto di chi vive sotto il ricatto della necessità, esposto al bisogno. In questo modo, l’opera diventa insieme indagine esistenziale e dichiarazione politica. La poesia non è un ornamento, ma uno strumento che mette a nudo lo sfruttamento e mostra come la sopravvivenza quotidiana eroda la libertà.
La domanda che il film lascia è brutale: quanto vale una vita spesa nel tentativo di forzare una scelta capace di abbattere la costruzione sociale e persino la famiglia? È possibile ricominciare senza annientarsi, attraversando la miseria e lo stigma? Donzelli non offre garanzie: la rinuncia può aprire a un’altra esistenza, ma resta il rischio che il sacrificio resti sterile. Eppure, la regista ricorda che nessuna rinascita è possibile senza riconoscere la dimensione collettiva della perdita, senza nominare l’identità professionale, sociale e intima come campo di scontro.
Alla fine, À pied d’œuvre non è atto di fede ma presa di posizione. Creare significa testimoniare contro la riduzione della vita a merce, contro il lavoro precario che consuma corpi e cancella prospettive. Non c’è redenzione estetica: solo la necessità di difendere la dignità come ultimo margine di resistenza. La miseria che il film mostra non è colpa individuale ma prodotto di un sistema che divora. Non c’è redenzione estetica: resta la nuda necessità di difendere la propria dignità, come ultimo terreno di lotta.
“Non c’è passione nel accontentarsi di una vita inferiore a quella che sei capace di vivere.”
Nelson Mandela