«L’uomo è l’unico animale che deve costruire la propria identità mentre porta il peso della propria memoria.»
— Paul Ricoeur
Con
Orphan,
László Nemes torna a misurarsi con i fantasmi della storia ungherese, collocando la sua nuova opera nei giorni bui seguiti alla rivolta del 1956, soffocata dai carri sovietici. Non c’è, tuttavia, volontà di ricostruzione storica: ciò che si dispiega sullo schermo è un viaggio nella coscienza di un ragazzo che incarna, con la sua fragilità, la lacerazione di un’intera comunità sospesa tra silenzio e sopravvivenza, tra il vuoto dell’origine e la memoria come ferita.
Il giovane Andor dopo l’infanzia in orfanotrofio, cresce accanto alla madre Klára, donna tenace e opaca, in una Budapest segnata dalla diffidenza e dalla sorveglianza. La figura paterna, mai tornata dalla guerra, diventa un’assenza assoluta, un vuoto che pesa più di qualunque presenza. L’identità del ragazzo si costruisce dunque su macerie invisibili, in un quartiere che conserva tracce di memoria collettiva ma in cui l’aria stessa sembra contaminata da sospetto e rassegnazione.
Eppure, oltre al vuoto del padre, Andor incarna la condizione di chi è orfano due volte: non solo di un genitore mai conosciuto, ma di una religione e di una cultura perseguitate, ridotte al silenzio, continuamente rimosse o deformate. In lui prende corpo la metafora del dominato, di colui che vive la precarietà come destino, che percepisce il potere, l’autorità, l’altro come perenne persecutore. È un orfano che si aggrappa al cognome, a una genealogia che non gli restituisce certezze, mentre attorno a lui agiscono forze politiche e culturali che ne manipolano il bisogno di appartenenza e lo inseriscono in un labirinto di rifiuto, sopraffazione e sospetto.
La comparsa di Berend Mihály, uomo segnato da brutalità e segreti, incrina ulteriormente l’equilibrio precario. Le sue visite alla madre, così come i controlli del regime e l’opprimente mutismo della comunità ebraica, spingono Andor a interrogarsi non solo sul passato familiare, ma sulla sostanza stessa della propria esistenza. Il film mette in scena questa iniziazione forzata: il passaggio dall’infanzia alla coscienza dolorosa del vivere in un mondo che non protegge, ma tradisce. E qui la tensione simbolica si fa evidente: se ne Il figlio di Saul era il padre a inseguire il corpo del figlio come riscatto impossibile, qui è il figlio a proiettarsi verso un padre ipotetico, cercando in lui conforto, salvezza e redenzione. Nemes costruisce un dispositivo speculare che ribalta il punto di vista e mostra come l’origine, sia essa paterna o storica, resti sempre irraggiungibile.
La scelta formale è coerente con la poetica di Nemes: girato in 35 mm, con inquadrature serrate e soggettive che aderiscono allo sguardo di Andor, il film non concede spazi di respiro. La macchina da presa si fa corpo estraneo, invasivo, che costringe lo spettatore a condividere la vertigine di un’identità che si disgrega sotto il peso della Storia. L’intimità diventa il luogo in cui la violenza politica si riflette e si interiorizza.
Orphan è dunque più di una vicenda familiare: è un’indagine sul legame tra memoria e identità, su come le narrazioni mancate e le omissioni diventino parte integrante del nostro essere. Nemes filma la perdita come condizione ontologica e ci consegna il ritratto di un orfano che, più che di un padre, è privato della possibilità stessa di credere in una genealogia limpida. L’orfanezza, allora, non è solo biografica: diventa il simbolo di una cultura che si sente perseguitata, esclusa, respinta anche quando forse l’altro, il diverso, tenta a suo modo di accogliere o restituire.
In questo senso, la storia in Nemes non è mai ciò che appare, ma rimanda sempre ad altro, a un significato che si colloca oltre l’immagine e oltre la rivelazione. Il trauma non si mostra direttamente, ma si percepisce nello scarto tra ciò che vediamo e ciò che resta indicibile. È questa la cifra più profonda del cinema di Nemes: trasformare la Storia in un enigma esistenziale, in un vuoto che non può essere colmato se non dal confronto con la propria stessa indefinitezza.
«Non è tanto ciò che ci accade a determinare chi siamo, ma ciò che ricordiamo di ciò che ci accade.»
— Octavio Paz