Gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto
Rabindranath Tagore
Una visione estetica del tempo e della connessione interspecie: suddiviso in capitoli stilisticamente distinti: immagini in bianco e nero, girate su pellicola, accompagnano la giovane Grete del 1908; il 1972 utilizza pellicola 16 mm piena di colori caldi ma sfumati; infine, nel 2020, dominano i formati digitali nitidi e freddi. Questa scelta estetica non è mero vezzo visivo, ma espressione sensoriale di mondi interiori e relazioni temporali. Così, il montaggio diventa un esercizio di ospitalità tra tempi differenti, un lasciar entrare l’altro tempo senza ridurlo a identità.
In ogni epoca, il contatto con il ginkgo diventa un rito silenzioso, un esperimento di ascolto che trascende le parole e mira a una reciprocità non antropocentrica. Non si tratta di comprendere l’altro, ma di aprirsi al silenzioso richiamo dell’altro; l’albero non è mai oggetto, ma compagno tacito. Qui si avverte un’eco della lezione derridiana: la vera ospitalità non consiste nel ridurre l’ospite al nostro linguaggio, ma nel lasciare che resti irriducibilmente altro.
Il film incarna una filosofia incarnata di corpi e percezioni; esplora il concetto di Umwelt – il mondo soggettivo di ciascuna specie – evocando il pensiero di Thomas Nagel sul mistero di «come è essere un altro». Silent Friend evita di interpretare la natura, e preferisce mostrarne la presenza come campo sensoriale aperto, senza chiusure. In questo spazio sospeso, ciò che è familiare diventa estraneo e ciò che è estraneo diventa familiare: lo scarto dell’alterità, che Derrida avrebbe chiamato “venuta dell’altro”, è la condizione stessa dell’esperienza.
Ogni protagonista è un outsider: Grete, unica donna in un’università maschile; Hannes, giovane di campagna in un contesto in fermento; Tony, neuroscienziato di Hong Kong isolato nel campus post-lockdown; il ginkgo, infine, è una presenza solitaria in un giardino esotico. L’estraneità diventa soglia e possibilità di osservazione, non identificazione. Così, l’ospitalità verso l’altro non è mai possesso, ma fragile apertura a ciò che disloca.
La Scienza ascolta e il corpo racconta: Enyedi propone una scienza non distaccata, ma incarnata, sensibile, quasi empatica – quell’“empirismo tenero” (Zarte Empirie) evocato da Goethe. La conoscenza non è dominio, ma partecipazione: è un atto di co-esistenza, non di possesso. Qui la scienza si piega come un linguaggio che accoglie senza appropriarsi, ricordando che ogni sapere, se autentico, deve sapersi contaminare con ciò che non può del tutto comprendere.
Il corpo – non solo la mente – diventa strumento di percezione. I piccoli gesti, le esitazioni, la prossimità non verbale diventano veicolo di una comunicazione che trascende la parola. È un linguaggio che accoglie l’altro senza annullarlo, proprio come l’ospitalità che resta sempre incompiuta.
L’architettura narrativa del film è silenziosa e aperta alle domande: un’impalcatura modulare: episodi che convivono anziché concatenarsi, tessendo un discorso aperto, frammentato, piuttosto che porre una tesi compiuta. Il silenzio evocato nel titolo non è mancanza, ma spazio di ascolto, zona in cui sostare più che spiegare. È uno spazio che somiglia a quella soglia indefinita tra il padrone di casa e lo straniero, dove l’identità si incrina e si apre al possibile.
La pianta, simbolo e soggetto che attraversa i segmenti, incarna il tempo biologico, la memoria culturale, la resistenza e l’alterità: è femmina, millenaria, diversa.
In un’unica immagine vivente, si concentra il senso del film. Il ginkgo non si lascia mai del tutto assimilare: come l’ospite irriducibile di Derrida, resta in un altrove che ci obbliga a ripensare i nostri confini.
Silent Friend è un poema visivo che decostruisce i confini tra uomo e natura, tempo umano e tempo biologico. Enyedi orchestra un dialogo silenzioso tra corpi, epoche e forme di vita diverse, usando la fotografia, la materia filmica e i gesti minimi come linguaggio. È un invito contemplativo e critico: restare, osservare, percepire l’altro senza volerlo normalizzare. E, in filigrana, un esercizio di ospitalità radicale: accogliere ciò che ci disarma, il silenzioso amico che ci abita e che non ci appartiene.
E’ il linguaggio della natura a cui bisogna saper prestare ascolto.
Vincent Van Gogh