“È nell’impossibilità che l’amore diventa assoluto.”
Marguerite Duras
Non è semplicemente un melodramma tragico: è un corpo a corpo con il peso dell’esistenza, con la colpa che corrode, con l’amore che si traveste da sacrificio e si converte in condanna. Cai Shangjun costruisce un film che soffoca lo spettatore e lo inchioda al paradosso di una redenzione sempre negata.
Il cuore della vicenda ruota attorno a un uomo che, per amore di una donna, si assume la responsabilità di un delitto che lei ha commesso. Entra in prigione, sacrifica la propria vita e persino la propria identità. Quando esce, segnato da un cancro allo stomaco e da una fragilità che porta incisa nelle ossa, ritrova colei che ha cercato di proteggere, e il loro ritorno a una convivenza esitante riapre la ferita mai rimarginata. Lui continua ad amarla, con un trasporto che sa di condanna, ma non riesce a perdonare. Lei lo accudisce, divisa tra gratitudine e senso di colpa, incapace di liberarsi dalla responsabilità del silenzio che lo ha condannato.
Nel frattempo, la donna aveva cercato una via di fuga in una nuova relazione con un uomo sposato che le promette un futuro impossibile. Resta incinta, ma la promessa si rivela illusoria: la figlia di lui lo perseguita con messaggi minatori, e quando lo sorprende con un’altra donna, tenta di tagliarsi le vene, compromettendo il prosieguo della loro relazione. La maternità, che poteva rappresentare un riscatto, si spezza brutalmente: in un bagno pubblico perde il bambino, lasciando sul pavimento non solo il sangue ma anche l’ultimo barlume di illusione.
Cai Shangjun orchestra questo precipizio con un rigore feroce, evitando qualsiasi apertura consolatoria. L’abbraccio finale tra i due protagonisti, lungi dall’essere liberatorio, si carica del peso di un amore impossibile, segnato da colpe reciproche e da una promessa di redenzione che non può compiersi. Il richiamo a un melodramma classico, quasi alla maniera di Il dottor Zivago, non produce qui nostalgia né commozione romantica, ma un senso asfissiante di condanna: l’amore come catena, il sacrificio come fallimento, la vita come una lenta agonia.
Persino il titolo — The Sun Rises on Us All — sembra schernire i personaggi e lo spettatore, evocando un’alba che non illumina ma acceca, una rinascita che resta inaccessibile. È un film che non concede catarsi: ogni gesto di amore diventa dolore, ogni atto di speranza è già segnato dalla rovina. Un’opera crudele e tragica, che trasforma il melodramma in una radiografia implacabile della condizione umana.
Il vero supplizio non è soffrire, ma non potersi più redimere.”
Emil Cioran