“Un’opera d’arte non si finisce mai: si abbandona.”
— Paul Valery
Il set è come rito iniziatico (o auto-sabotaggio sacro)
Tutto inizia come un documentario, o quasi. Ma la fabbrica del cinema si inceppa: ritardi, ciak infiniti, produttori esasperati, e Maresco che grida “filmicidio” prima di evaporare — un atto quasi mistico, come se il vero film fosse sparire anziché girare. Umberto Cantone emerge come detective esistenziale, raccoglie testimoni, racconta e si confronta — e lo fa in un modo così surreale che sembra più un esorcismo metacinematografico che un’inchiesta.
Carmelo Bene non è un nome, è un neurone impazzito: risuona come un oracolo dell’apocalisse, e non a caso il suo monito taglia come lama: “La cosa peggiore è morire senza capire fino a che punto gli uomini sono fottuti.”
Un pensiero che sembra scritto da Céline: “l’arte non puoi salvare il mondo” pervaso da quell’odore di cataclisma che non redime. L’artista geniale e invisibile diventa fantasma, detonatore, metafora vivente. “Il cinema è morto, non esiste: è la controfigura di sé stesso” — e in questa lapide risuona l’eco tragica della modernità tecnica, quell’epoca della vendetta dei mediocri. Credevamo nell’arte e nel cinema, ora non resta che un film come questo: concesso a tutti, ma compreso da pochissimi.
Tra Farsa, tragedia, cocktail dionisiaco, Antonio Rezza recita la Morte in una partita a scacchi shakespeariana; attori che recitano “da cani”, un nano e un pulcinella che ballano accanto a un falò, un asino chiamato Carmelo che irrompe come epifania, un cenno alla Ricotta di Pasolini, un mix che profuma teatro dell’assurdo, di carnevale apocalittico Intanto Francesco Puma — corpo e simbolo — si muove come incarnazione del nulla in cui siamo stati recapitati. E accanto a lui, Marzullo con la sua Coca-Cola e i popcorn, emblema di un intrattenimento che tutto addomestica, anche il non-rappresentabile.
Il rappresentabile e il suo fantasma :il film sfida il paradosso: ciò che è rappresentabile è già corrotto, ciò che non lo è scivola in abisso. Significante e significato si inseguono in un gioco crudele, fino a scoprire che uno è la parodia dell’altro. Qui il cinema si trasforma in un esercizio di de-ormdamento e de-pensamento (neologismi che paiono partoriti da una notte di febbre filosofica), un continuo sabotaggio della logica che spoglia lo sguardo e lo lascia nudo davanti al nulla.
Maresco sembra ripetere, ribadire, quasi urlare: “Le cose non vengono bene se non si soffre.” E in quella sofferenza c’è l’atto creativo più puro: il fallimento diventa epifania. È un film che avvelena e guarisce nello stesso tempo, un calice che non offre consolazione ma una vertigine di verità. Il montaggio, la fotografia neonera, i suoni stentorei, il jazz malinconico di Salvatore Bonafede — tutto converge in un’oscurità che pulsa e brilla.
Un atto politico e poetico che non è gratuito e non è folclore: è memoria, celebrazione velenosa. Dedicato a Goffredo Fofi, il film si fa omaggio a un intellettuale militante, e si proclama manifesto: il cinema non è mai neutrale, è atto rivoluzionario.
Se Un film fatto per Bene fosse un cocktail metafisico, sarebbe un Martinez dell’inferno: vermouth rosso cupo come ossessione, gin agrumato come sarcasmo intellettuale, ridotto di Nero d’Avola come terra che brucia. È un drink che non vuoi, ma da cui non riesci a staccarti. Una volta bevuto, non c’è ritorno: solo delirio, abisso e bellezza intrecciati.
Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato se non per uscire realmente dall’inferno.”
— Antonin Artaud