Una visione chiara del possibile e dell’impossibile… da questo, e non da altro, derivano la temperanza ed il coraggio, virtù senza le quali la vita è solo un vergognoso delirio.
Simone Weil
Con
La grazia,
Paolo Sorrentino ritorna a interrogare la fragilità dell’esistenza e il peso invisibile delle scelte che definiscono un destino collettivo.
Una domanda torna come un mantra: “di chi sono i nostri giorni?”
Non è soltanto un film sull’istituzione, ma una meditazione sull’enigma dell’essere umano posto davanti al bivio tra la fedeltà ai propri sentimenti e l’obbligo di incarnare la legge. La sua presentazione inaugurale alla Mostra di Venezia non appare dunque come un evento mondano, ma come l’apertura di uno spazio di pensiero, un varco in cui il cinema si misura con l’intreccio di amore, perdita e responsabilità.
Un motto antico attraversa silenziosamente la pellicola: “Virtus in periculis firmior”, il coraggio si irrobustisce nel pericolo. È la cifra segreta dell’opera: mostrare come la virtù non esista se non di fronte al rischio, come il potere non sia mai neutrale ma sempre corpo a corpo con la paura e con la morte.
La vicenda si concentra su Mariano De Santis, un Presidente della Repubblica, interpretato da Toni Servillo. Uomo di fede, segnato dalla morte della moglie, e dal di lei tradimento 40 anni prima. Costui si trova di fronte a un paradosso: concedere o negare la grazia a due condannati, e pronunciarsi su una legge che riguarda l’eutanasia. La questione non è astratta, ma radicalmente esistenziale: conferire la grazia a chi ha ucciso la moglie affetta da Alzheimer in fase terminale, o a chi ha tolto la vita alla persona amata dopo anni di violenza e soprusi?
In questo conflitto tra la rigidità della norma e l’irriducibile dolore umano si riflette l’abisso di ogni scelta politica, che non è mai pura amministrazione ma sempre sangue, carne, responsabilità. La politica che incarna perlopiù un rapporto isterico con la verità, qui oscilla tra il dovere pubblico e il silenzio interiore dell’individuo che deve decidere.
Al suo fianco, la figlia Dorotea che non è solo un personaggio, ma la figura che introduce la voce del presente: la giovinezza che reclama apertura, il dialogo che tenta di sciogliere il silenzio di un padre imprigionato nel cerimoniale della funzione. In lei, il diritto si intreccia con la compassione, e la legge smette di essere qualcosa di immobile per abitare il vissuto e l’interpretazione.
Sorrentino stesso lo ha definito “un film d’amore”. Ma non di un amore rassicurante o ornamentale: piuttosto l’amore come mancanza, come domanda che scava e non trova risposta definitiva. L’amore per la moglie perduta, per i figli, per la giustizia stessa.
Un amore fragile, in cui le parole echeggiano come condanna da parte di una detenuta a Dorotea: “Tu non hai mai amato”. Qui la fedeltà e il tradimento si sovrappongono, l’etica si corrompe e si rigenera nello stesso istante. Servillo traduce questa tensione in uno sguardo che non cerca consenso, ma espone la vulnerabilità di chi governa. Così l’amore diventa inseparabile dal dubbio, e il dubbio si fa unica forma autentica di fedeltà all’altro. Il dubbio come fondamento etico.
Cos’è impossibile? Definire la verità.
L’opera si radica in questa impossibilità. Il dubbio non è un limite, ma la vera bellezza della grazia. Il film lo rende evidente: la politica, con la sua pretesa di neutralità, non ci rende mai immuni dai sentimenti. Al contrario, ne è il teatro, lo spazio in cui la giustizia si intreccia con l’amore, con il coraggio, con la responsabilità, con la tragedia del femminicidio di anime e con il sacrificio dei corpi.
Così, La grazia si configura come un manifesto morale e intimo insieme, dove la vita e la morte non sono opposti, ma parte di una stessa corrente che attraversa chi decide e chi subisce le decisioni.
Le città che fanno da scenario – Torino, Milano, Roma, Mantova – non sono cornici decorative, ma luoghi che risuonano come stati d’animo. Il Castello del Valentino, il Museo Egizio, Piazza di Spagna: ciascuno di questi spazi diventa architettura della coscienza, proiezione esterna di un uomo che porta dentro di sé la frattura irrisolvibile tra fede e politica, tra desiderio di assoluto e “compromesso storico”.
Eppure, nel cuore della gravità, appare un lampo di leggerezza. In una scena esilarante, l’amica Coco irrompe con la sua vitalità: un attimo di respiro che mostra quanto la leggerezza non sia fuga, ma condizione necessaria per sopravvivere al peso del ruolo. Qui si affaccia la possibilità di “recuperare il senso della leggerezza”, di vivere “l’assenza di gravità” come un astronauta che si commuove nello spazio e vede la sua lacrima fluttuare, senza possibilità di essere asciugata. Un’immagine che spezza e allo stesso tempo vaga.
La grazia è un’opera che procede leggera e profonda. Sorrentino sceglie di raccontare un uomo alla fine del suo percorso, che si trova a dover decidere non più tra opzioni infinite, ma tra due sole possibilità ultime. È in questa riduzione che il film trova la sua forza: nel mostrare che la vita, alla fine, si condensa sempre in poche scelte irrevocabili.
Non tutti vi troveranno lo stesso ritmo: chi cerca intrattenimento veloce potrà percepirne la lentezza, chi diffida del simbolismo potrà giudicarlo eccessivo. Ma proprio nella sua densità metaforica risiede la sua necessità: La grazia non vuole sedurre, ma restituire allo spettatore la vertigine di un pensiero che interroga sé stesso.
Un film che non grida, ma resta, come una preghiera sospesa, come la lacrima senza gravità che vaga nello spazio: la grazia come bellezza del dubbio.
Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi… illusioni di cui si è dimenticato che sono illusioni.