Portobello” (episodi 1-2) (120)
di Marco Bellocchio
“La menzogna non ha bisogno di prove; la verità, sempre.”
— Bertolt Brecht
Nuova narrazione seriale che incarna l’ambiguità dell’essere e della memoria collettiva. Chi è quell’uomo che, sospinto dalla fama, dall’adorazione popolare, precipita in un abisso costruito dal potere stesso che lo usa e lo esalta? È l’enigma centrale di Portobello.
Nei primi due episodi, ci immergiamo in un’epoca sospesa tra luce e oscurità, tra l’effimero splendore televisivo e il peso di un’accusa che travolge il senso di giustizia. Tortora, nel momento in cui il Paese intero lo acclama come conduttore simbolo, intravede lo specchio di una nazione in cerca di tenerezza e condivisione: il pappagallo, guida silenziosa di un programma che si fa rito collettivo, assume il volto della speranza. Ecco allora che l’apice, quell’estasi che lo consacra “Commendatore della Repubblica”, si fa crepa nel tessuto dell’ordine: un pentito, meglio, dissociato, una parola di troppo, spalancano la voragine della calunnia.
Ma il cuore della serie si fa ancora più cupo nelle scene ambientate nel carcere di Napoli: lì si incrociano i rapporti sottili e spietati tra camorristi, si intravede la “luxury room” del professore Raffaele Cutolo, emblema di un potere criminale che riproduce i propri privilegi anche dietro le sbarre. L’accanimento contro Tortora, intrappolato in una rete di omonimie e fraintendimenti, si carica della beffa crudele di un destino che confonde il suo nome con quello di un camorrista, mentre piccoli indizi – centrini, corrispondenze, scritture minori manipolate da Giovanni Pandico, scribacchino del professore – vengono piegati in strumenti di delegittimazione.
La verità non è più un bene oggettivo, ma una merce che passa di mano in mano, deformata da chi la custodisce. Ed è proprio nel carcere che si consuma uno dei dialoghi più significativi: Tortora, ancorato a un atteggiamento snobistico e distante, rimprovera agli italiani la loro inconsapevolezza politica nel voto; un detenuto, compagno di cello lo incalza ricordandogli che i ventotto milioni di spettatori che lo hanno reso celebre non sono diversi, anch’essi ingranaggi di un sistema mediatico, governativo, economico e criminale che rende il consenso e l’intrattenimento funzionali al sistema e al dominio della camorra. Qui Bellocchio mette a nudo la catena invisibile che lega il potere dello spettacolo alla struttura stessa dell’oppressione.
L’opinione pubblica è un tribunale senza appello, che giudica senza prove.” — Norberto Bobbio
La fotografia indecisa, sospesa tra l’intimità e il palcoscenico, sembra cogliere l’angolo cieco dell’anima: quel punto in cui l’eroe si scopre fragile e l’immagine—reale o costruita—diventa una gabbia. Il paesaggio – l’Italia degli anni Ottanta – rimbomba di tensioni: dai terremoti alle fragilità istituzionali, ogni scossa geografica sembra rispecchiare una lacerazione morale.
E mentre lo spettatore assiste al conduttore che cammina, inerme, verso la realtà della sua perdita, si chiede: quanto vale la giustizia in una società che può indulgere al linciaggio mediatico? Quanto pesa la verità se non sorretta dalla lentezza del tempo e dalla resistenza personale?
Portobello non è cronaca né memoria pietistica. È un interrogativo in forma visiva, una meditazione sul destino dell’innocente e sul vuoto lasciato dalla fiducia tradita. Bellocchio costruisce una riflessione filmica che, ben oltre il caso specifico di Enzo Tortora, interroga il senso più profondo dell’umano, il suo rapporto con il giudizio, la colpa, la comunità.
Per ora molto bene, vediamo come prosegue…
“L’ingiustizia in un solo uomo è una ferita nell’intera comunità.”
— Albert Camus