La crudeltà non è mai casuale: è l’atto più lucido dell’uomo.»
— Albert Camus
Il film di Kaouther Ben Hania non prevede catarsi. Ti accompagna implacabile.
La voce di Hind Rajab si sottrae alla logica dello spettacolo e riduce tutto all’essenziale: una sala di controllo della Mezzaluna Rossa, voci che si rincorrono, attese senza risposta. In questa spoliazione radicale emerge il vero nucleo dell’opera: non la rappresentazione della violenza, ma l’impossibilità di darvi una forma.
Hind, la bambina, non appare mai sullo schermo. Resta voce, invocazione senza corpo, presenza che sfugge alla cattura visiva. In questa assenza forzata il film pone una questione cruciale: come testimoniare l’orrore senza trasformarlo in consumo e come trasmettere la memoria senza piegarla alla pornografia della sofferenza. Ben Hania sceglie la sottrazione, e in questo gesto indica che il cinema non può “mostrare” l’indicibile, può soltanto lasciar emergere l’intervallo, il vuoto, l’orrore.
L’opera si colloca così in uno spazio etico: non dà voce a una vittima, ma ci obbliga ad ascoltare la voce che già c’è, quella che qui si evita di lasciare nel silenzio. Non si tratta solo di commuoversi, ma di misurarsi con un fallimento che ci riguarda. Hind non è solo un nome proprio, è il simbolo di una lunga genealogia di atrocità che non possiamo comprendere e che non sapremo mai giustificare.
A questo fallimento si aggiunge l’aspetto più estenuante: il tempo che scorre nella sala operativa, scandito dalle procedure burocratiche e dall’attesa di un permesso, la cosiddetta “green line” di coordinamento, senza la quale i soccorsi non possono avanzare. Anche quando il via libera arriva, la logica brutale della guerra azzera ogni regola: l’ambulanza che tenta il salvataggio viene colpita, i soccorritori muoiono, tutti. In questo cortocircuito tragico si rivela la nudità del potere distruttivo, capace di annientare persino chi osserva le cautele e rispetta le procedure.
In questo senso, il film/documento lavora come un dispositivo di memoria e di resistenza: respinge l’oblio e costringe a sostare in quell’istante inaccettabile in cui il soccorso non arriva. Nessuna catarsi, nessuna redenzione: solo il peso insostenibile dell’assurditá.
The Voice of Hind Rajab mostra, con lucidità implacabile, che il cinema può ancora farsi testimone, non solo della verità dei fatti — che restano sovente parziali, sfuggenti, incomprensibili — ma della nostra incapacità di affrontarli. Se “dopo Auschwitz la poesia non puo più essere la stessa”, possiamo testimoniarlo dopo questa guerra. Qui il cinema si fa portavoce, strumento improcrastinabile, evidenza della propria indispensabile legittimità di fronte all’orrore. E qui l’immagine resiste non offrendo molto alla visione, ma trattenendo, lasciando intravedere ciò che non si può davvero sopportare. Ben Hania si inserisce in questo spazio critico, che è anche politico, vicino a quanto viene definito “regime estetico delle immagini”: un luogo in cui l’opera non addolcisce il reale, ma lo mette a nudo, imponendo allo spettatore il fardello del pensare e dell’impossibilità di omettere.
La sofferenza chiede di essere raccontata, ma quasi sempre rimane muta.»
— Susan Sontag