In pace i figli seppelliscono i padri, mentre in guerra sono i padri a seppellire i figli.
— Erodoto
Sandu sceglie di proporre una istallazione di arte contemporanea che è al contempo intimista e rigorosa: il suo è un documentario autobiografico nel quale il racconto non procede linearmente, ma per stratificazioni, ritorni, echi. L’infanzia sotto il fuoco della guerra, la deportazione, gli spostamenti sono rappresentati con un uso sapiente del voice-over, di immagini di repertorio, di tableux vivants che non evocano ma mostrano il trauma in un presente che non si lascia relegare al passato.
L’estetica visiva è potente, spesso fremente, con contrasti forti: luce e ombra, silenzi che pesano, rumori che irrompono, colori che appaiono, scompaiono, tornano come cicatrici. La regia mantiene sempre una certa distanza, ma è una distanza che permette l’osservazione minuziosa; ogni inquadratura è scelta non solo per mostrare ma per far sentire – per far percepire la distanza tra l’azione e la sua memoria, tra ciò che accade e ciò che resta.
In questo ordito, le immagini assumono la forza di un teatro crudele: la rappresentazione della violenza della guerra prende corpo in un tableau perturbante, con una Barbie fatta a pezzi e un Ken con l’accetta conficcata in testa, circondati da animali e pupazzi infantili come in una piece teatrale. L’interno domestico diventa scenario di brutalità, con gli zii percossi dai soldati “come al cinema”; le file interminabili per ricevere il cibo si trasformano in rituali collettivi; l’infanzia canta l’opera, Il Flauto Magico, mentre King Kong batte le mani, in una giustapposizione surreale di innocenza e orrore.
Al centro c’è la memoria come luogo di conflitto: memoria che testimonia, ma anche memoria che tortura; memoria che reclama verità, ma è contaminata da lacune, distorsioni, misure di tempo che non coincidono con le nostre. Il film interroga non soltanto che cosa ricordare, ma come ricordare: quale voce, quale prospettiva, quale linguaggio restano fedeli all’esperienza, e quali la tradiscono.
La violenza familiare e sociale si inscrive con immagini che oscillano tra l’onirico e il documentario: per nome e cognome lo chiama la nipote, Michail Aleksandrovic, il nonno ubriaco, che la insegue con l’ascia chiamandola “figlia del demonio”; il padre, ritrovato dopo otto anni, senza denti, avvolto da uno striscione di Lenin, ricercato dalla polizia; il campo di papaveri, luogo di gioco e di rosso splendore condiviso con il padre, che si carica di idillio e ferita.
C’è anche la voce materna che attraversa la memoria come un ammonimento costante: «Qualunque cosa accada, non farti prendere dal panico». Una voce che si dissolve, eppure ritorna, quando la figlia ritrova un dito monco, con ancora infilato l’anello di rubino della madre: residuo fisico e simbolico di una perdita che non si chiude mai.
Il soggetto privato (l’infanzia, la separazione, la perdita) diventa manifesto del collettivo: il conflitto bellico, la guerra, le radici, la cittadinanza, l’identità disgregata. Sandu mette in scena non solo il dolore individuale, ma il dolore come fenomeno storico, sociale, e politico.
C’è anche la tensione verso la guarigione, verso un ordine – ma è ordine che non annienta la ferita; ordine che convive col caos dei ricordi, con la discontinuità, con l’intermittenza dell’io che non sempre riconosce se stesso. Una forza morale che non si esibisce come riscatto fine a sé stesso, ma che emerge dall’atto stesso del narrare, dal mettere in mostra ciò che è intollerabile.
La regia di Sandu si distingue per una coerenza stilistica che tiene insieme tessuto visivo e narrativo con precisione, alternando momenti di sospensione e silenzio a immagini che parlano più delle parole. Il film non si limita a informare: offre un’esperienza sensoriale intensa, capace di coinvolgere e scuotere lo spettatore, suggerendo che il ricordo sia qualcosa di vivo, instabile e in costante oscillazione. Nel portare alla luce una storia personale, Sandu valorizza al contempo il suo valore testimoniale e politico, delineando responsabilità collettive, memoria condivisa e diritti di soggetti spesso invisibili. L’universalismo del racconto riesce a trascendere la dimensione privata, aprendo la narrazione a una risonanza collettiva senza mai perdere la forza dei dettagli intimi. La densità simbolica e la costruzione frammentaria invitano lo spettatore a una partecipazione attiva e interpretativa, trasformando l’atto del vedere in un esercizio critico e riflessivo. Infine, l’equilibrio tra forma estetica e verità emotiva consente all’elaborazione visiva di amplificare la testimonianza piuttosto che annullarla, permettendo al trauma di trovare un linguaggio artistico/cinematografico capace di restituirne complessità e persistenza.
Memory è un’opera che chiede allo spettatore non solo di guardare, ma di prendere posizione, di confrontarsi con la verità molteplice. È cinema della presenza e dell’assenza che non tace.
Accompagnato da Master of War di Bob Dylan,il finale porta questa tensione a un culmine visivo di straordinaria forza: una sequenza di fotografie di repertorio, provenienti da diverse epoche e geografie, mostra bambini di tutto il mondo immersi in contesti di guerra, ritratti inconcepibilmente con armi in mano. Non è solo un montaggio di immagini, ma un atto politico ed estetico che dilata la vicenda individuale fino a trasformarla in allegoria universale. Lo spettatore viene così posto davanti all’insopportabile evidenza dell’infanzia violata, della memoria che non appartiene a un luogo soltanto, ma al genere umano nel suo insieme.
Un film inquieto e inconsueto che riesce a tratteggiare la ferita come parte integrante dell’identità, un tassello ineludibile di quella cinematografia contemporanea che rappresenta la guerra, l’infanzia, l’esilio, la memoria storica in una modalità assolutamente e egregiamente artistica.
La guerra finirà / e i leader si stringeranno la mano / e la vecchia donna continuerà a mendicare per le strade / e il bambino che aveva collezionato i pezzi del suo corpo / non troverà altro che pietre con cui giocare.
Taha Muhammad Ali