Il Souffleur di Gastón Solnicki si dispiega come una meditazione quieta e insieme inquieta su cosa significhi restare aggrappati quando il mondo insiste ad andare avanti. La storia di Lucius, un direttore d’albergo che si attacca agli ultimi frammenti della propria vita, risuona come qualcosa di più di un semplice racconto: diventa un’allegoria della modernità che divora la tradizione e della memoria che resiste all’oblio.
Le stesse parole del regista echeggiano nel film: il suo sentirsi straniero che tenta di cristallizzare ciò che sta svanendo. La collaborazione con Willem Dafoe appare come un vero e proprio controcanto, un incontro di voci dissonanti che produce armonie inattese. Il film si comporta spesso come la musica — si espande in più direzioni, costruisce sottili corrispondenze, lasciando che il suono diventi tanto decisivo quanto l’immagine.
Quello che all’inizio sembra un racconto lineare rivela lentamente una tessitura polifonica, in cui dettagli e atmosfere hanno lo stesso peso della trama. Mentre un personaggio si ostina a salvare un edificio, il film sussurra una domanda più profonda: cosa, se mai, può davvero essere preservato?
“Conservare non significa resistere al tempo, ma dargli forma.” Guardando The Souffleur, si percepisce che “il passato sopravvive non come rovina, ma come risonanza.”
Filosofico senza mai risultare pesante, il film rimane sospeso come un accordo irrisolto. Mi è piaciuto — proprio perché rischia di posarsi, come dice Solnicki, “nella zona più pericolosa”, e lì trova la sua verità.
«La tradizione non è la venerazione delle ceneri, ma la custodia del fuoco.»
— Gustav Mahler