La dipendenza è una forma di fedeltà disperata a ciò che ci uccide.
— Marguerite Duras
L’alba scandita da un orario preciso – 6:06 – diventa in questo film il simbolo di un’esistenza sospesa, prigioniera di una ripetizione che non conosce variazioni. La vita di Leo, ventiseienne smarrito in una temporalità circolare, si consuma tra lavori di pura sopravvivenza e il richiamo incessante della sostanza, che non è soltanto una dipendenza chimica ma il paradigma stesso del suo pensiero: un eterno ritorno che lo riporta, con crudele puntualità, al punto di partenza. Ogni tentativo di fuga si infrange contro l’implacabile logica del ricominciare.
Nel suo orizzonte si inscrive Jo-Jo, figura nomade e dissonante, che parla una lingua straniera e guida un caravan come fosse un corpo che le consente di restare viva. Non un’ancora di salvezza, bensì un detonatore: portatrice di un lutto non pacificato, di un vuoto che la consuma, diventa specchio e contrappunto dell’abisso di Leo. Nella collisione dei loro traumi si apre un varco, un linguaggio inedito, una forma di intimità che non redime ma incrina lo schema.
Il viaggio verso il Portogallo – fisico, ma ancor più interiore – è una deriva lungo strade misteriose, attraversate da lampi onirici e visioni in cui le identità dei due protagonisti si incontrano in una lingua comune fatta di silenzi, ferite e attimi sospesi. Ma la traiettoria non conduce a una salvezza lineare: Leo è costretto a discendere nel proprio inferno, mentre Jo-Jo resta figura evanescente, forse destinata a dissolversi, lasciando dietro di sé solo la traccia di un passaggio. La corsa che li unisce è insieme promessa e minaccia, tensione verso un possibile riscatto che potrebbe però rivelarsi nuova caduta.
L’opera della regista Tekla si radica in una necessità personale e politica: raccontare il dolore, la sopravvivenza e la ricerca di un’altra possibilità. La scelta di lavorare con attori non professionisti, provenienti da margini reali e non mediati, produce un linguaggio che potremmo definire sporco, autentico, refrattario a ogni estetizzazione consolatoria. Leo incarna un vuoto che divora dall’interno, mentre Jo-Jo è il caos incarnato, presenza destabilizzante che non pretende mai di trasformarsi in salvezza.
La sua luce instabile e le cromie che oscillano tra l’abbagliante e l’oscuro, amplifica la sensazione di alienazione, inscrivendo i corpi in paesaggi che sembrano oscillare tra realtà e allucinazione. L’immagine stessa diventa luogo di conflitto, mai rifugio: una superficie lacerata dove la dipendenza trova il proprio corrispettivo visivo.
6:06 non offre redenzione, né tantomeno un conforto illusorio. Invita piuttosto lo spettatore a sostare nelle zone più crude dell’esistenza, a guardare il dolore e il disordine senza distogliere lo sguardo. Ciò che emerge non è la promessa di un lieto fine, ma la possibilità di scorgere, nelle fenditure più profonde, una forma inaspettata di bellezza.
La regista, con vent’anni di esperienza nel cinema sociale e un percorso biografico segnato dalla caduta e dalla rinascita, trasforma la propria ferita in dispositivo estetico ed etico. Il film è allora un patto collettivo, un gesto di resistenza: testimonianza per una generazione che si muove tra disillusione e ricerca ostinata di senso.
Non si tratta di vincere – sembra ricordarci 6:06 – ma di imparare a stare nel conflitto, di continuare a combattere pur sapendo che ogni alba potrà riportarci al medesimo punto. La possibilità di una seconda chance non è garanzia, ma apertura fragile, da riconquistare ogni giorno alle 6:06.
E tuttavia, dentro questa cornice, l’opera si piega anche verso il surreale, verso un immaginario che attinge a sogni fluorescenti e a visioni che confondono vita e morte, luce e tenebra, caduta e resurrezione. La dipendenza appare come un buco nero, un vuoto impossibile da colmare, che si specchia nel tema universale dell’esistenza e della fine. In questa dimensione, l’amore interrotto di una figlia verso il padre, da ritrovare o forse solo da immaginare, si riverbera come eco sommersa, aggiungendo ulteriori strati di senso.
Il film assume così la forma di un’installazione artistico-cinematografica, creativa e paesaggistica: un road movie dell’anima, in cui crescere significa attraversare rovine e fantasmi, aggrapparsi a corpi o memorie sapendo che quel gesto può tanto salvare quanto condannare. Le ceneri di chi è stato amato si disperdono nell’Oceano maestoso, come se la natura stessa partecipasse a un rito di dissoluzione e rinascita.
Il tunnel, il coma, il ritorno a nuova vita: figure simboliche che emergono dal racconto come metafore della trasformazione, domande aperte più che risposte. Basterà questa esperienza a risignificare l’esistenza, a mutare l’irriducibile enigma delle proprie scelte? 6:06 lascia sospesa la questione, ricordando che ogni resurrezione resta fragile, e che il senso dell’essere non è mai definitivo.
Il vuoto non è un difetto: è lo spazio in cui l’anima si allarga o si perde.”
— Emil Cioran